Il Cammino di Santiago in bicicletta, ma senza cane e carrellino Marco Zuccari 5 Febbraio 2016 Cicloturismo L’ho già dichiarato: tra i miei compagni di avventure in bicicletta c’è sempre un pizzico di follia. Rende più frizzante il viaggio, va bene, ma il dubbio rimane: sono io che li attiro o è un male comune? Questa volta voglio raccontare di un’altra stupenda vacanza, senza cane e senza carrellino, ma sempre con la presenza immancabile dello… “stravagante” di turno. Conoscete il “mitico” Camino de Santiago? È il percorso dei pellegrini che fin dalla notte dei tempi vede schiere di fedeli partire da ogni luogo della vecchia Europa e confluire a Roncisvalle, sui Pirenei e da qui compiere i circa 800 chilometri che conducono a Santiago de Compostela, in Galizia, a ridosso della costa atlantica spagnola, a nord del Portogallo. Questa città deve il nome a San Giacomo (Jago in spagnolo), l’apostolo che (sembra) andò a predicare in quelle terre così lontane dalla Palestina. Quando tornò in patria, fu martirizzato; la tradizione vuole che il corpo venisse miracolosamente rinvenuto (ottocento anni dopo!) in una barca piena di conchiglie con adagiati i resti del martire. La barca era approdata, non si sa come, sulla costa atlantica galiziana dove venne eretta una città e una stupenda cattedrale per ospitarvi le reliquie di Giacomo. La città è Santiago, gioiello impreziosito dal magnifico tempio che ancora oggi è orgoglio della Galizia e meta dei fedeli (e non) di tutto il mondo. L’inizio del percorso è convenzionalmente a Roncisvalle perché lì ci fu la celeberrima battaglia tra le truppe di Carlo Magno e i Saraceni, ovvero i musulmani, a riprova del fatto che la “divergenza di opinioni” tra noi e loro non è di oggi. Dalla notte dei tempi, come si usa tra persone pie, ci si scanna amabilmente, all’insegna de “il mio Dio è migliore del tuo e mi incarica di massacrarti”. Carlo Magno vinse, ma il prode paladino Orlando ci lasciò le penne, come ci racconta l’Ariosto da par suo. Il Cammino di Santiago di Compostela I pellegrinaggi riconosciuti ufficialmente con tanto di attestato all’arrivo sono di tre tipi: a piedi, a cavallo e in bicicletta. Il primo è di gran lunga il più suggestivo, carico di significati e… impegnativo. Camminare è la scelta che i pellegrini fanno in maggioranza. Sono coraggiosi; fare ottocento chilometri a piedi non è da tutti, però oggi almeno non ci sono i lupi, i briganti, i malanni e tutti i pericoli che insidiavano i poveri viaggiatori dei secoli scorsi. La strada transita quasi sempre in campagne dove non passano le auto. La direzione è indicata da segnalini a forma di conchiglia – ovvio, no? – che rendono quasi impossibile sbagliare. Il pellegrinaggio a cavallo è un po’ snob, però cavallerizzi se ne vedono anche se rari; i camminatori si scansano prudentemente al loro passaggio, infischiandosene invece dei ciclisti in transito. La bicicletta nel medioevo non c’era, ma ai nostri giorni è comunissima tra i pellegrini meno inclini a farsi venire i calli ai piedi. Ha il vantaggio di consentire medie più alte, lascia spazio a maggiori digressioni turistiche, dà l’idea di essere “giovane” per giovani. Per contro chi cammina ha l’aurea del peccatore penitente che espia con la fatica qualche misfatto biblico. Pochi sanno che l’espressione idiomatica italiana: “Ho le gambe che fanno Giacomo, Giacomo!” deriva proprio da questo itinerario. I poveri viandanti, quando sentivano le forze abbandonarli e i muscoli cedere alla fatica, recitavano giaculatorie a San Giacomo, invocandone il nome, perché li aiutasse. Da qui il detto. Il nostro viaggio: il Cammino di Santiago in bicicletta Partimmo in quattro, arrivando in auto fino a Roncisvalle con biciclette al seguito. Oltre a me c’erano la mia compagna e il fido amico Carlo, mio angelo custode in tante avventure. Poi c’era un curioso personaggio, Guidino, che si rivelò l’anima bizzarra del gruppo. Guidino è uno scapolo impenitente, dedito allo sport e all’attività fisica; non si ha notizia di altri passatempi per i quali gli ammogliati invidino i celibi. È individualista di indole; spesso parte in solitaria per lunghi percorsi in bici, a piedi oppure con la sua adorata Vespa e accumula chilometri su chilometri raggiungendo distanze precluse ai comuni mortali. È preciso come un orologio svizzero e la sua meticolosità e rigorosità in ogni dettaglio ricordano quelle di un militare prussiano. Odia i trasandati, i menefreghisti, gli approssimativi nella preparazione fisica; odia tutti coloro che non hanno metodo, stile, eleganza di gesto, compostezza atletica. In sintesi: odia me o, meglio, io incarno l’emblema di ciò che lui aborrisce. A parte le rampogne che mi presi ad ogni piè sospinto, anzi ad ogni pedale sospinto, il viaggio fu godibilissimo. Guidino esecrava la mia posizione sulla bici. Immaginatevi di viaggiare per 80 km al giorno con uno che recita giaculatorie non a san Giacomo, ma contro di voi. “Sei troppo teso”, “Muovi troppo le spalle”, “Le braccia sono contratte”, “Le ginocchia sono divaricate”, “Il rapporto è troppo duro”, “Il rapporto è troppo morbido”, “Freni troppo”, “Freni poco”. Un supplizio. Viaggiando pensavo: “Tra ottocento anni troveranno i miei resti adagiati su una bicicletta (anche senza conchiglie); non serviranno spiegazioni miracolistiche, capiranno che sono sicuramente morto martirizzato da Guidino”. Il colmo lo raggiunse quando ebbe da ridire per come stavo sulla bicicletta in piedi… da fermo. Non ci credete? Sono serissimo: secondo Guidino esiste una tecnica spiegata in non so quale manuale per la quale una bicicletta ferma va cavalcata così e non cosà. Nonostante le sue rampogne, ci beammo di quei paesetti spagnoli, con gli ostelli in cui dormivamo e le piccole osterie dove gustavamo la cucina locale. Ammirammo ogni metro di quell’affascinante percorso dove, spettacolo nello spettacolo, la folla degli altri viaggiatori offre uno spaccato di umanità varia che istruisce, meraviglia, diverte, fa riflettere. Attraversammo l’Inferno, il Purgatorio e il Paradiso. Metaforicamente corrispondono alle tre grandi parti in cui il percorso da Roncisvalle a Santiago de Compostela è divisibile. La prima parte, dalla partenza fino a Logroño, risente dei vicini Pirenei. Salite, discese, altre salite, caldo soffocante (in agosto quando eravamo in viaggio): è… l’Inferno (esagerando un po’). La seconda parte da Logroño a Ponferrada si sviluppa sulla meseta spagnola, ovvero l’altipiano brullo che caratterizza per un terzo della sua estensione il territorio iberico. Pedalare qui, tra greggi di pecore e strade polverose, è un monotono Purgatorio. Infine, da Ponferrada fino a Santiago o, se si vuole, fino a Capo Finisterre, ovvero la punta estrema ovest della Spagna sull’Atlantico dove venne trovato il corpo di San Giacomo, è il Paradiso: dolci colline, foreste rigogliose, paesaggio variegato, la sensazione di avere la meta a portata di mano. A parte la fantasiosa distinzione tra Inferno, Purgatorio e Paradiso, tutto il percorso è godimento, facendo quasi passare in secondo piano l’attraversamento di città ricche di storia come Pamplona, Burgos, Leon. L’arrivo a Santiago, la visita alla cattedrale, il ritiro del diploma che spetta a chi ha completato il camino, rappresentano il degno suggello di un viaggio meraviglioso. Volendo si potrebbe suggerire di dare un diploma speciale o almeno una menzione di lode a chi effettua il percorso con accanto Guidino, ma… non sottilizziamo. Il nuovo incontro con Guidino: dalla bici alla corsa Qualche giorno fa ho deciso di fare jogging nelle stradette intorno al paese brianzolo dove vivo. Mi sentivo in forma. Dopo una mezz’oretta vedo un tizio passare in bicicletta nella direzione opposta alla mia. Lo riconosco. “Ciao, Guidino!” gli grido festosamente. “Ciao Marco”, mi risponde. Era tantissimo che non vedevo più quel caro compagno di viaggio e ciò, complice la mia natura bonaria, mi faceva gioire genuinamente per l’incontro fortuito. Guidino, affabile, decide di fermarsi e di invertire la rotta, seguendomi, in modo da non costringermi a sostare per chiacchierare con lui. Carino! Riporto le parole della nostra conversazione testualmente. Sono impresse a fuoco nella memoria. “Guidino! Come stai? Sei sempre uguale, sempre in forma!”. “Eh sì, dai! Non sto male”. Guidino mi scruta mentre corro. Mi preoccupo. Cerco di assumere la postura più atletica che mi riesce. Spalle erette, piedi orientati in avanti violentando con fatica i difetti di appoggio di cui ho consapevolezza. “Non dovresti correre!”. Il suo giudizio è lapidario; sento improvvisamente la strada in salita come la parete est del Monte Rosa. “Perché?” esalo trepidante. “Per il ginocchio. Dovresti camminare”. Capisco a cosa allude e un po’ mi consolo. Ho la ginocchiera per l’infiammazione alla rotula che ho curato con infiltrazioni. Ma lui cosa ne sa? Potrei portare la ginocchiera per bellezza, accidenti a lui! Guidino prosegue implacabile. “No, sbagli a correre, non fa bene al ginocchio. Dovresti camminare. Senti anche il fiato: sei affannato! Non va bene”. Sto in apnea per qualche secondo, pur di non fargli sentire che sono affannato. Ci ripenso. Se non respiro fino a casa c’è il rischio che poi mi debbano mettere sotto la tenda a ossigeno per farmi riprendere. Non voglio dare questa soddisfazione a Guidino. (Gin-occhio e occhio sono malmessi nel mio corpo; che sia un problema di desinenza? Forse è solo mal-occhio!) “Vedi, Guidino, sto cominciando a correre dopo mesi. Sono stato operato alla retina e adesso cerco di ritrovare la forma fisica allenandomi un po’”. Ho fatto uno sforzo sovrumano per dire questa frase, costringendomi a dire una parola dopo l’altra senza banfare come un mantice. Odio sembrare affannato davanti a lui. Guidino non ci casca. Mi fulmina: “Lo vedi. Non ce la fai più. Rinuncia!”. La mia corsa diventa pesantissima. È come se mi avessero zavorrato con due sacchi di cemento al posto delle scarpe. Tento una debole difesa. Vorrei fargli presente che, dopo gli “anta”, i recuperi sono un po’ più lunghi, ci vuole costanza e pazienza. Questo vorrei dirgli e invece riesco solo a spiccicare: “Beh, in fondo ho già la mia età!”. Guidino è misericordioso come un alligatore davanti a un pollo: “Appunto. Devi smettere. Fatti delle belle passeggiate a passo lento. Cammina, non correre”. Lo guardo per capire se sta scherzando oppure se dice sul serio. È serissimo. Conoscendo Guidino so che non potrebbe essere più serio di così. Con un ultimo briciolo di energia cerco di ironizzare: “Secondo te, potrei andare con una bella sedia a rotelle?”. Guidino si volta a guardarmi. Capisco che sta considerando con serietà la domanda. “No”, mi risponde asciutto. Mi lancia un’occhiata clinica e, senza parlare, mi fa capire: “È ancora presto”. La pochissima forza rimasta la metto tutta in uno sguardo feroce con cui lo incenerisco. “Guidino”, gli dico, “ci vai da solo o ti ci mando io?”. Non mi risponde, continua a guardare la mia corsa che si è fatta più penosa e strascicata. Cerco di cambiare discorso. Gli domando dei sui viaggi in Vespa; mi dice che a giugno è andato da solo a Capo Nord in motoretta. Parliamo del più e del meno per qualche minuto poi mi annuncia che basta, torna indietro proseguendo nella direzione opposta alla mia, come prima di incontrarci. “Ciao Guidino” gli biascico. “Ciao. Smetti, mi raccomando”. Ho continuato il mio giro e l’ho completato, ma non ero in forma smagliante. Secondo voi i compagni di viaggio capitano casualmente oppure uno se li cerca e… merita?