Che invidia il mio amico Carletto! Parliamo di molti anni fa, esattamente il 1999, quando io decisi di affrontare con lui e suo figlio Fabio l’impegnativa sfida: dalla Brianza a Parigi pedalando.

L’idea me l’aveva suggerita l’invidia, pessima consigliera.

Carlo ha due figli maschi del tipo che ogni padre vorrebbe avere. A quel tempo Fabio, il secondogenito, aveva diciotto anni e già da tempo si era instaurata tra genitore e figlio una simpatica consuetudine: celebrare la fine dell’anno scolastico di Fabio con una biciclettata transgenerazionale.

Io fin da subito li avevo seguiti… con l’immaginazione.

Quattro anni prima di quel 1999 avevano compiuto l’impresa d’esordio, partendo da Usmate (paesone vicino a Monza dove abitano) e arrivando in tre giorni fino all’Alpe di Siusi, dove Carlo e famiglia hanno un simpatico appartamentino, vista Dolomiti.

Che invidia per me che li seguivo da casa a colpi di telefono!

L’anno dopo avevano intrapreso una più impegnativa Usmate, Roma, mettendoci qualche giorno in più, ma neppure troppi. Nel 1998 avevano varcato i confini nazionali: Usmate, Monaco di Baviera e ritorno via Brennero fino all’imprescindibile Alpe di Siusi.

Che invidia! (mi ripeto, ma non ci sono altre parole per il medesimo concetto).

Anch’io ho prole. Due deliziose ragazze di cui sono perdutamente innamorato. Atleticamente però il confronto con i figli di Carlo era ed è improponibile. Le mie figlie (speriamo che non mi leggano se no la rappresaglia sarà terribile) si vantavano di essere sportive e ginniche, guai a dire il contrario!

Devo ammettere che sono sempre state due ragazze infaticabili, irrefrenabili, inarrestabili in attività podistiche, ciclistiche, ginniche, agonistiche, atletiche. Con un limite. Che male c’è? Tutti abbiamo dei limiti.

Il loro era quindici minuti. Instancabili e grintosissime per un quarto d’ora. Al sedicesimo minuto l’energia era esaurita. Fine della corsa, fine della pedalata, fine di qualunque attività che richiedesse sudore.

Nessuna possibilità di emulare con loro le gesta del mio amico Carletto e di suo figlio. Mi rimaneva solo l’invidia, sempre l’invidia, nient’altro che l’invidia!

I compagni di viaggio durante l'avventura in bicicletta tra l'Italia e la Francia

Sole, pioggia e vento gelido (sul Passo del Sempione) hanno accompagnato la lunga avventura in bicicletta tra Usmate e Parigi

Nel 1999 Carlo e Fabio preparavano l’avventura più ardita: da Usmate a Parigi. Di Usmate sapete già tutto, Parigi vi è ignota. Si tratta di quella graziosa città che la Francia vanta come sua capitale e che tra le caratteristiche più sensazionali ha quella di essere a 900 chilometri da Usmate. Non bastando ciò, tra i due importanti centri europei (Usmate di più), vi sono alcune protuberanze montane da valicare, dette Alpi.

Timidamente presentai istanza al duo padre/figlio perché mi portassero con loro. Magnanimamente acconsentirono. Tutti e tre nutrivamo una sola perplessità sul progetto: la mia capacità ciclistica.

Ecco le forze in gioco: Carlo robusto cinquantenne (allora), allenatissimo e tonico; Fabio, una specie di bronzo di Riace, con i muscoli duri come le celebri statue, ma molto più mobile di loro. Anche oggi Fabio è un giovanottone over trenta che si diletta di triathlon con ottimi risultati. Io non mi descrivo, lascio immaginare. Non a caso, pianificando il viaggio, convenimmo che al mio primo cenno di cedimento avrei caricato la bici sul treno e li avrei scortati a Parigi come turista ferroviario.

Era la seconda metà di giugno. Già la prima tappa fu devastante: 140 chilometri da Usmate a Domodossola. Arrivai più morto che vivo, ma arrivai.

Il giorno dopo ci fu l’epopea del Sempione. Questo è un passo alpino, in Svizzera, a cui si arriva con una ininterrotta salita di quaranta chilometri per ben 1700 metri di dislivello, elevandosi dai 300 metri di quota in Domodossola fino ai 2000 del Sempione.

Questi già alle prime salite ci accolse affettuosamente a modo suo: un vento sferzante e gelido tormentò implacabile il nostro terzetto. Al ventesimo chilometro mi arresi perché il gruppetto si era sgranato come prevedibile: Fabio avanti e invisibile a me; Carlo lontanissimo in cima alla rampa, presto sarebbe scomparso; io arrancante.

Decisi di rispettare la promessa: non li avrei attardati. Scesi di bici e attesi il corrierone svizzero, il postale giallo, cercando di ripararmi dalle folate del vento. Arrivò di lì a poco. Caricai bicicletta, bagagli e quel blocco di ghiaccio che ero io.

Dopo una decina di chilometri, ne mancavano altri dieci alla vetta, scorsi una figura umana derelitta che attendeva a una fermata. Riconobbi Carlo. Anche lui salì con bici e bagagli. Mi raccontò che aveva resistito eroicamente fino a quel punto, quando una raffica di aria gelida l’aveva letteralmente abbattuto; aveva deciso che proseguire sarebbe stata follia.

E Fabio? Non ne sapeva nulla. Il granitico ragazzo si era distanziato in fuga fin dalle prime impennate della strada; chissà dove poteva essere in quel momento.

La corriera riprese la marcia in salita mentre fuori la tormenta era percettibile fin dall’interno del veicolo. Noi si guardava ansiosamente la strada speranzosi di vedere il gregario in fuga. Mancava poco più di un chilometro al passo quando, proprio in corrispondenza a una fermata, lo scorgemmo sdraiato su un prato al ciglio della strada. Ci fiondammo da lui, sfidando il vento implacabile. Era esausto e disidratato. Chiese subito da bere; gli porgemmo una borraccia che lui drenò in un attimo. Il padre lo sollecitò a salire sulla corriera. Fabio lo fulminò come se gli avesse proposto il più efferato delitto.

«Mai!» esclamò.

Mentre l’autista del postale ci ingiungeva di salire oppure scaricare le bici, Fabio inforcò eroicamente la sua e affrontò di petto le intemperie. Noi sedemmo mesti in corriera; in pochi minuti fummo in vetta tra raffiche di vento che scuotevano il veicolo.

Scaricate le bici, il cuore paterno di Carlo gli ingiunse di correre incontro al figlio. A malincuore sentii che era mio dovere seguirlo. Dopo poche centinaia di metri incrociammo Fabio che, con il piglio di Coppi sullo Stelvio (“un uomo solo al comando!”) e lo sguardo di Napoleone sul nemico in fuga, dava le ultime pedalate come calci castigatori al vento e all’asfalto del Sempione.

Arrivò in cima scortato da Carlo e da me (mi diedero un paio di minuti su duecento metri) come un trionfatore.

le pianure francesi e l'arrivo in bicicletta a parigi

Alcuni momenti immortalati durante il viaggio con l’obbligata (e meritata) foto sotto la Tour Eiffel

Il resto del viaggio non fu una passeggiata. Ci godemmo la discesa dal passo a Briga senza più vento, come se il Sempione sconfitto avesse ceduto le armi. Nei giorni successivi percorremmo la valle del Rodano, costeggiammo il lago Lemano fino a Losanna, scavalcammo gli ultimi contrafforti delle Alpi a scollinare in Francia, arrivammo a Digione e percorremmo le interminabili distanze da lì a Parigi.

Non ebbi più la necessità di prendere mezzi pubblici. Piano piano la mia mancanza di allenamento si attenuò perché le gambe me le facevo pedalando per oltre cento chilometri ogni giorno. Non mi fermò neppure una rovinosa caduta che subii per pura distrazione, come spesso avviene. Un po’ scorticato, ma non vinto, proseguii sulla scia di padre e figlio.

Non credo di averli rallentati, anche se di sicuro loro non spingevano al massimo. Spesso Fabio scalpitava e allungava la pedalata. Lo vedevamo scomparire all’orizzonte mentre Carlo rinunciava a stargli dietro per amicizia.

Lo trovavamo che ci aspettava. Fermo? Seduto? Sdraiato?

Macché! Approfittava di qualche rotonda, già numerose in Francia fin da allora, e le percorreva tante volte quanto serviva perché noi lo raggiungessimo.

L’arrivo a Parigi fu per me una delle soddisfazioni più grandi che lo sport mi abbia dato. La foto sotto la Tour Eiffel è un ricordo che ho nel cuore e in un quadretto incorniciato che spesso guardo con un sospiro. Sento ancora l’invidia, ma è per il me stesso di allora; non si chiama più invidia, si chiama nostalgia.

Che fantastica esperienza lungo tutto il tragitto! Quanti bei ricordi! Ma quelli più vivi di quell’impresa sono legati a Fabio.

Rivedo la sua figura snella e atletica che inanella giri su giri nelle rotonde di Francia aspettando pazientemente i “vecchi”. E sempre rivedo il suo sguardo fiero nel trionfare sul Sempione spazzato dalle raffiche di aria gelida.

Grande Fabio!

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A proposito dell'autore

Marco Zuccari dopo una carriera in ambito tecnico, ha virato verso attività umanistiche amatoriali: attore, presentatore, cantante di coro, fotografo e scrittore. È ciclista ma solo per vacanze avventurose. Da una prima pedalata in India è nato un fortunato libro, La ferocia della capra, e, recentemente, è uscito il secondo, Bicincina. Entrambi catturano il lettore per l’ironia con cui l’autore narra le proprie avventure turistico/sportive.